venerdì 5 ottobre 2012

-La peste nella letteratura

Confronto fra Tucidite, Lucrezio, Boccaccio e Manzoni

52 commenti:

  1. Il tema della peste,definito tòpos letterario, fa da sempre parte della letteratura, non solo italiana, ma anche mondiale,poichè anche Tucidide,storico greco, e Albert Amus,scrittore francese, scrivono opere sulla peste.
    Mettendo a cronfonto diversi scrittori come Tucidide, Lucrezio,Boccaccio e Manzoni,possiamo vedere come viene descritta da tutti nel modo più fedele possibile alla reltà,infatti vengono descritti minuziosamente i sintomi e la sofferenza dei malati;inoltre possiamo vedere come la peste distrugga la società dall'interno:infatti chi non veniva contagiato dalla malattia o si chiudeva in casa sperando di non contrarre il morbo, lasciando i propri parenti morti o malati per strada senza offrire loro aiuto o degna sepoltura, oppure andava in giro per la città a combinare disastri di ogni tipo,non curandosi delle leggi o della religione poichè
    non c'era più chi le faceva rispettare, portando la città al disfacimento morale e sociale.

    Valerio S.

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    1. COME DETTO IN CLASSE...è UNA CORRETTA INTRODUZIONE ;)

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  2. C. MASSARI
    (PARTE I)
    La piaga della peste ha costituito una delle problematiche principali che ha afflitto e devastato le società del passato, tanto da divenire un vero e proprio topos letterario oltre che storico. Alcuni tra gli autori più celebri che la descrissero minuziosamente - chi in modo più specifico, chi in modo più romanzato - sono Boccaccio, Tucidide, Manzoni e Lucrezio.
    Giovanni Boccaccio, narra, all'interno della sua opera più celebre, ovvero il “Decameron”, la peste che scoppiò nel 1348 destinata a diffondersi in tutta Europa. Sebbene la sua descrizione si riveli alquanto sommaria ed utilizzi un linguaggio solenne ed elevato, resta comunque precisa e comprensibile; tanto che, nonostante il distacco di Boccaccio, esso consente al lettore di immedesimarsi al punto di fargli provare paura e disgusto, definendo la peste anche in semplici ma diretti termini, come “mortifera”. La peste, come affermano anche Lucrezio, Manzoni e Tucidide, comporta infatti una degenerazione non solo al livello fisico, ma anche in ambito tradizionale, legislativo e morale. L'uomo, infatti, come avvolto da una nube che gli oscura l'intelletto, non si rivela più capace di vivere in maniera civile, al contrario della “Civiltà puramente utopica” dei giovani narratori descritti nel Decameron. Boccaccio interpreta la peste come una forza bestiale di cui ignora l'origine, inconsapevole se la causa della piaga derivi dall'ira di Dio o da altre forze esterne. Ma nonostante sia convinto che la forza disgregante del caos circondi l'uomo, vuole dimostrare che è possibile imporre la vittoria della vita sulla morte, definire un ordine umano, a prescindere dalla piaga della peste, che si identifica col caos stesso. Ordine, questo, che lui rappresenta metaforicamente grazie alla famosa “Società utopica” che si distacca dalla degradazione portata dalla peste, e spende il suo tempo mangiando e bevendo, riposando e raccontando novelle.
    La peste di Lucrezio, descritta invece nel “De Rerum Natura”, sintetizza gli avvenimenti storici come Boccaccio, ma non per questo se ne distacca. Al contrario, la soggettività caratterizza la sua descrizione, che si presenta sentita e drammatica. Sotto questo punto di vista Lucrezio è infatti l'esatto contrario di Boccaccio, inserendo, grazie ad uno stile ricco di descrizioni poetiche e pathos, una notevole componente drammatica dettata da angoscia e dolore. Ciò è evidenziato anche dall'utilizzo di un lessico crudo e avvilito, come nei termini “morifer”, usato anche da Boccaccio, o “funestos”, o come si nota dalla celebre descrizione che sintetizza il suo stile: "Persino la gola, nera all'interno, trasudava sangue e la via della voce, chiusa dalle piaghe, si sbarrava e la lingua, interprete della mente, grondava sangue, indebolita dal male, grave a muoversi, ruvida al tatto... L'alito, fuori dalla bocca, emanava un lezzo fetido, come puzzano i cadaveri putrefatti abbandonati". Così come aveva fatto Boccaccio, anche Lucrezio descrive il degrado morale e civile delle popolazioni, ma, al contrario di quest'ultimo, ha le idee piuttosto chiare riguardo la causa del contagio: una manifestazione della forza della natura. La peste descritta da Lucrezio non è, inoltre, quella dilagata in Europa alla metà del 300, ma la peste di Atene del 430 a.C. Di particolare importanza è infine la sua concezione epicurea secondo cui l'uomo non deve temere nulla: essa evidenza il suo scopo di insegnare all'uomo a non turbarsi di fronte al cosmo, a non temere il caos, la morte né tantomeno la peste.

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    1. Sarebbe stato preferibile seguire un ordine cronologico nel commento delle opere, non puoi dire lucrezio dice ...a differenza di come diceva boccaccio (o espressioni simili) Spiegare meglio i primi due periodi su Lucrezio. Perché Boccaccio è sommario?

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  3. C. MASSARI
    (PARTE II)
    Così come Lucrezio, anche Tucidide, nelle “Storie”, descrive la peste di Atene del 360, ma con uno scopo totalmente diverso. La sua non è più una manifestazione d'angoscia e tormento - eccetto nell'ultima parte in cui si fa trascinare da un velo di commozione - , bensì una complessa descrizione storica che riassume minuziosamente gli avvenimenti legati alla peste. Considerando infatti la storia come uno strumento necessario ai posteri per meglio comprendere il futuro, si impegna nella stesura di una vera e propria ricerca storiografica, con cause e conseguenze morali, rimedi ed effetti fisici, cercando di sembrare più realistico e chiaro possibile. Al contrario di Boccaccio e Lucrezio non analizza le cause dal punto di vista religioso o scientifico, ma da quello puramente storico: la definisce infatti come una piaga sviluppatasi in Etiopia destinata a raggiungere l'Egitto e poi la Grecia.
    L'ultimo autore a parlare della piaga è Alessandro Manzoni, che descrive invece la peste che invase Milano nel 1629. Così come Tucidide, l'autore chiarisce innanzitutto le basi della disgrazia dal punto di vista storico, narrando precisamente gli eventi che caratterizzarono tale periodo. Al contrario di Lucrezio e dello stesso Tucidide, però, predilige una descrizione distaccata ed obiettiva degli effetti fisici della piaga, senza cadere nell'orrido o nella tetra elencazione dei dettagli. Per quando riguarda invece la causa che ha portato alla peste di Milano, non crede sia colpa dell'ira divina - come Boccaccio - né di forze naturali a cui l'uomo non può ribellarsi - come Lucrezio. Manzoni sostiene invece che la colpa sia dell'uomo e delle responsabilità che, non essendo stato razionalistico a sufficienza, esso non ha saputo assumersi. Invece di trovare un rimedio o analizzare la peste dal punto di vista scientifico, infatti, l'ignoranza della gente l'ha portata a fuggire da essa, credendo nella magia e nella superstizione. Così come gli altri tre autori, però, anche Manzoni la considera come la causa della perdita dei valori morali e civili del popolo.

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    1. non essendo stato RAZIONALE e non razionalistico
      peste di Tucidide del 430 a.C.

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  4. Riccardo D'Angelo (parte 1, non si possono fare commenti con più di 4000 caratteri)

    La peste è stata uno dei flagelli che ha costantemente accompagnato la vita dell’uomo, tanto da esserne diventata un celebre topos letterario.
    Una delle prime descrizioni di questa malattia fu la peste che investì la città di Atene nel 430 a.C. Quest'ultima fu analizzata dallo storico greco Tucidide nella sua opera “Storia della guerra del Peloponneso”: nella narrazione scompare completamente la visione mitologica, che lascia invece spazio al vero intento storico dell’autore. Infatti, l'indiscutibile abilità di Tucidide si manifesta nell'analisi e nella descrizione oggettiva delle cause e dei sintomi che portarono alla morte di molti contagiati. La malattia si diffuse a causa di una nave proveniente dall'Egitto, dove per cause sconosciute si era sviluppata la peste. Proprio quest'ultima causò un vero e proprio abbattimento demografico e, allo stesso tempo, anche le usanze greche furono sconvolte: i templi erano pieni di cadaveri, i morti non venivano sepolti e i moribondi barcollavano per le strade.
    Nel I secolo a.C., a Roma, Lucrezio riprese , nel De rerum natura, la descrizione della peste di Tucidide, ma l'intento dei due autori era nettamente differente. Se lo scopo dello storico greco era quello di narrare le cause e la diffusione della peste, Lucrezio era intento a esporre e argomentare la sua filosofia, cioè l'epicureismo. Dopo una drammatica descrizione della diffusione e dei sintomi sui malati, Lucrezio, utilizzò infatti questa malattia per dimostrare che l'uomo non deve temere la morte né tantomeno episodi drammatici come può essere la peste. Ovviamente non manca una sua presa di posizione contro la religione: quest'ultima viene considerata un “accessorio” per gli uomini, dal momento che, in episodi così dolorosi, si dimenticano degli dei e anche le stesse divinità osservano disinteressate i dolori dell'uomo.
    Il tema della peste viene nel corso della storia ripreso da vari scrittori, come si nota da Boccaccio che, molto tempo dopo, riporta alla luce una tematica che era stata analizzata 1300 anni prima da Lucrezio. Il suo rapporto con la “peste nera”, che si diffuse a Firenze nel 1348, è completamente differente dagli altri due autori classici. Proprio in questa atmosfera di devastazione materiale e di disgregazione morale, una brigata di dieci giovani, sette donne e tre uomini, decide di recarsi fuori dalla città per esorcizzare l'orrore della morte. La descrizione che l'autore toscano fa di questa tragedia è molto oggettiva, dal momento che vuole affidare l’orrore e il giudizio alla tragicità degli eventi stessi, evitando quindi ogni intervento soggettivo. In primo luogo Boccaccio analizza la corruzione fisica prodotta dalla pesta (“i bubboni”e “le macchie”), i tentativi e i vari rimedi da ciascuno escogitati e la loro sostanziale inutilità (“non perciò tutti campavano”) e infine l'agghiacciante constatazione finale ("certissimo indizio di futura morte").

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  5. Riccardo (parte 2)

    Successivamente anche Alessandro Manzoni, ne “I Promessi Sposi”, utilizza questo topos letterario per la narrazione del suo romanzo. La peste descritta dall'autore milanese nei capitoli XXXI e XXXII è quella che si diffuse proprio nella sua città natale nel 1629 a causa dell'arrivo dell'esercito dei Lanzichenecchi. Solo dopo la morte di molti uomini vennero prese delle precauzioni per la diffusione della malattia, anche se molti avevano già ipotizzato che la peste di fosse diffusa a Milano. La Chiesa, per cercare di attenuarla, fece delle lunghe processioni, che però ebbero l' effetto contrario rispetto a quello previsto: radunando tutta quella gente, contagiata e non, infatti, si allargò l'epidemia. Nella società milanese si diffuse poi la diceria che alcune persone ungevano con olio infetto i portoni delle case dei cittadini, contagiandoli. Per questo motivo vennero uccisi molti innocenti, i quali venivano scambiati come untori.
    Sebbene dunque, a seconda dello scrittore, la descrizione della peste abbia assunto delle sfumature alquanto differenti, è stato e rimarrà un topos destinato ad essere raccontato e ricordato per sempre

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  6. Giulia parte 1
    “Nessuna tradizione serba memoria, in nessun luogo, di un così selvaggio male”
    Il passo riportato è tratto da “La guerra del Peloponneso” di Tucidide, autore greco vissuto a cavallo tra il quarto e quinto secolo a.C. E’ il primo a descrivere dettagliatamente quello che chiama il “morbo ignoto”: la peste. Si deduce da subito il clima di sgomento che doveva regnare, poiché le persone erano tenute ad affrontare un nemico così crudele senza armi né difese. E’ facile intuire la facilità con cui questa malattia fece un tanto elevato numero di vittime. Altri autori, in tempi successivi ne descrissero la brutalità, autori come Lucrezio Caro, Alessandro Manzoni e Giovanni Boccaccio, e ne fecero una parte integrante nei loro scritti.
    Tornando a Tucidide, descrive i due aspetti della peste: quello strettamente patologico e quello sociale. La descrizione del primo è preceduta da una piccola parentesi in cui l’autore incita i posteri ad utilizzare le sue annotazioni per arrestare il morbo prima che si possa espandere come stava capitando allora. IL più interessante tra i due è senz’altro il secondo: Tucidide descrive un’ Atene dilaniata dal morbo, dove anche i rapporti più stretti vengono distrutti (aspetto che ritroviamo nel Decameron di Boccaccio). Pochi sono coloro che, con coraggio, escono dalle proprie case per vegliare i cari perduti. E’ uno scenario orribile, dove solo chi è già stato colpito dal morbo può dirsi al sicuro.
    La descrizione di Tucidide viene ripresa da Lucrezio, che la modifica particolarizzandola. Lucrezio, infatti, affronta l’aspetto sociale più di quanto abbia fatto il suo predecessore. Infatti a Lucrezio interessa poco o niente la descrizione dei sintomi, se non in funzione del suo scopo: convincere il lettore dell’assenza degli dei nella vita comune. Il filo conduttore dell’opera è infatti la volontà di far aderire i romani all’Epicureismo, i cui punti cardine sono l’atomismo e l’ateismo.
    “Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino e il potere dei numi: il dolore presente vinceva”. Con questa affermazione, Lucrezio intende dire che non sono solo gli dei, posto che esistano, a ignorare gli uomini, ma in queste situazioni anche gli uomini ignorano gli dei. Questo testo è il testo di chiusura dell’opera di Lucrezio, e molti hanno dei dubbi al riguardo: c’è chi dice che sia rimasto incompiuto, altri, invece, che è solo un altro sintomo della pazzia dell’autore. Infatti, concludere un’opera volta alla conversione del popolo romano alla fede dell’autore con una descrizione tanto cruda e macabra della visione dell’essere umano, di certo non aiuta la sua causa.


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  7. Giulia parte 2
    Tucidide e Lucrezio sono entrambi vissuti prima della nascita di Cristo, a differenza del prossimo autore, che ha inserito la peste in una visione religiosa. Alessandro Manzoni, infatti, ha fatto della peste il mezzo della Divina Provvidenza, vale a dire la legge divina che premia coloro che compiono buone azioni e punisce chi ne compie di malvagie. La Provvidenza, infatti, è parte fondamentale del romanzo: esempio lampante ne è Lucia, più che degna di essere premiata per la sua bontà, viene spesso graziata e aiutata da questa forza divina. Nello scenario di Milano invasa dalla peste, interviene come sempre la Divina Provvidenza, risparmiando Renzo e Lucia e, al contrario, colpendo Don Rodrigo. La peste è, quindi, sempre intesa come seminatrice di terrore, tanto che perfino Dio se ne serve per punire persone come Don Rodrigo, oppressori del popolo e dei deboli. Il messaggio di Manzoni è, quindi, esattamente all’opposto di quello di Lucrezio: Dio aiuta sempre chi se lo merita, soprattutto nel momento del bisogno.
    L’ultimo autore, prima citato, che incontreremo è Giovanni Boccaccio. Notiamo subito la differenza principale tra Boccaccio e i tre prima analizzati: la peste ha finora goduto di un primo piano, mentre Boccaccio si limita ad assumerla come “cornice”, cioè una storia principale che permetta di immetterne altre, senza comprometterne l’intera credibilità della vicenda.
    “Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto”
    “Questo orrido principio sarà per voi che camminate non altro che una montagna aspra e rocciosa, presso cui vi sia posto un bellissimo e piacevole altopiano”
    E’ proprio la peste la montagna che Boccaccio descrive come aspra e erta. La peste, quindi, non è altro che la cornice, attraverso la quale, però, dobbiamo passare per arrivare all’ altopiano.
    Anche Boccaccio descrive i sintomi della peste, come i suoi precedenti, descrivendo il paesaggio dal quale fuggono i protagonisti.

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    1. Non concordo con l'interpretazione che dai per Manzoni...se la peste serve a Dio per punire i malvagi come giustifichi la morte di bambini innocenti??? l'episodio di Cecilia...la tua interpretazione è troppo semplicistica. Parlando di Boccaccio non concludi il tuo pensiero. è interessante sottolineare che la peste è qui una cornice...ma forse proprio per questo ha una valenza maggiore che negli altri tre casi??? senza la peste il deca,eron non ci sarebbe.Ripensa a ciò che hai scritto e rispondi alle mie obiezioni

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  8. Riccardo D'Arch...Parte 1
    “provocò, nel giro di pochi anni, la morte di 1/3 della popolazione europea, lo sconvolgimento del sapere medico, la reazione emotiva di una popolazione presa alla sprovvista, isterie apocalittiche e xenofobe, sentimenti radicati di vanità delle cose, ma anche mutamenti socio-economici, LA MORTE NERA.”
    Cit. di Tommaso Duranti, noto studioso che descrive una delle malattie più devastanti , LA PESTE; era considerata letale e contagiosa . La sua origine era dovuta dalla presenza di topi che contagiavano le merci e di conseguenza portavano il virus lungo le coste europee e non solo.
    Riguardo all’argomento di questa malattia così terrificante molti studiosi, poeti e filosofi ne presero parte a descriverla nelle varie sfaccettature; i principali furono : Tucidide , storico e generale ateniese che rappresenta la letteratura greca con “La guerra del Peloponneso”; Lucrezio ,famoso poeta e soprattutto filosofo romano che ha introdotto a Roma il credo epicureista ; Boccaccio , famosissimo scrittore e poeta conosciuto soprattutto per il suo capolavoro di novelle “Decameron” ; e , infine Manzoni , grande rappresentante della poesia e letteratura italiana grazie a molte opere ma soprattutto grazie a “I promessi sposi”.
    Tucidide nel 2° libro de “Le guerre del Peloponneso” descrive la peste ad Atene del 430 -429 a.C. ; lo scrittore greco fa una descrizione reale e accurata del periodo trattato evidenziando i sintomi e le influenze sociali portate dalla peste. Nell’opera si rintraccia lo stile oggettivo e preciso che racconta ogni momento , infatti si sofferma a parlare dell’incapacità e dell’impotenza dei medici , delle rivolte verso gli altari per cercare un aiuto divino e soprattutto dei sintomi descritti in modo realistico , quasi medico . Importante è rilevare anche il comportamento sociale , questo davvero raccapricciante :” Famiglie distrutte per mancanza di persone disposte a curarle” cit. quindi tra famigliari l’aiuto era assente.
    Con riferimento a Tucidide c’è la presenza del poeta-filosofo romano Lucrezio , il quale si basa e prende inspirazione dallo scrittore greco ma a differenza di quest’ultimo pone nella sua descrizione uno stile filosofico (rifacendosi alle teorie di Epicuro sul fatto di non avere paura della morte perché cosa che non coinvolge l’uomo) e anche a uno stile poetico. Segue una comparazione di una parte di testo di Tucidide e Lucrezio, che tratta lo stesso argomento, utile a capire tali differenze stilistiche” contemporaneo l’arrossamento e l’infiammato enfiarsi degli occhi(Tucidide)/ Dapprima avevano il capo bruciante di un ardore infocato ,gli occhi iniettati di sangue per un bagliore diffuso(Lucrezio) ”. La differenza stilistica è sostanziale, nel primo caso si vuole far capire in modo chiaro e semplice il gonfiarsi degli occhi e l’arrossamento e nel secondo si utilizza maggiormente la tecnica poetica con un lessico più tragico.
    Invece, l’elemento comune consiste nel fatto che la colpa di tutto ciò non è Dio o della natura, ma è un avvenimento del tutto casuale(ritorno a pensiero epicureista).
    Trattata la peste in Atene da due grandissimi scrittori-poeti , analizziamo la situazione in Italia prima con Boccaccio e in seguito con Manzoni.

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    1. molti poeti ne presero ??? molti poeti la descrissero/ la usarono nelle proprie opere. Lucrezio è più poeta che filosofo - il credo epicureo. Con riferimento a Tucidide c’è la presenza del poeta-filosofo romano Lucrezio ...NO si può collegare a T. l'opera di L. che considera la stessa pestilenza....come noti nel confronto Lucrezio usa immagini forti, poetiche...quindi non dire che nel passo della peste L. sia filosofico!!! non lo è per nulla

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  9. Riccardo D'Arch...2 parte
    Come già detto Boccaccio ha scritto il Decameron e utilizza il tema della peste a Firenze con una funzione di cornice o meglio d’introduzione all’opera. Infatti l’ambiente storico ha permesso la fuga dei ragazzi della lieta brigata affinché si radunassero in campagna e iniziare l’arte del novellare.
    Boccaccio racconta la peste in un modo notevolmente realistico , utilizzando molte figure retoriche e rilevando come Lucrezio e Tucidide la degenerazione della società del tempo in un momento di tale difficoltà:” l 'un fratello dell’altro abbandonava e il zio nipote e la sorella il fratello e spesso volte la donna il suo marito e che- maggior cosa non è credibile- li padri le madri i figlioli , quasi loro non fossero di visitare di servire schifavano” cit. dell’introduzione del Decameron che spiega il menefreghismo in un momento di bisogno .
    Elemento discordante invece con le descrizioni della peste ateniese è che Boccaccio non prende parte nell’incolpare a Dio o alla natura sulla causa della pestilenza.

    Infine c’è la figura di Manzoni il quale cita la peste nel cap. XXXI/XXXII de “I Promessi Sposi”:
    A Milano cominciarono nel 1629 a comparire i primi decessi ma la politica del posto o meglio i governatori non ne diedero peso, in modo particolare Ambrogio Spinola. Con il passare del tempo la malattia cominciò a diffondersi fino ad arrivare alla sua completa diffusione.
    Nella descrizione di Manzoni è evidente la mancanza dei danni causati dalla peste a livello fisico come spiegato dagli autori e scrittori citati precedentemente ma preferisce analizzare e riportare la situazione sociale della popolazione.
    Riguardo la causa, Manzoni non ritiene Dio e la natura colpevoli anzi li considera innocenti poiché da la colpa alla classe politica e in modo generico all’Uomo incapace di gestire una situazione simile.
    In conclusione possiamo dire che la peste ha caratterizzato la storia e la vita a livello mondiale e soprattutto a livello europeo facendo molte vittime; queste sono state onorate e ricordate da grandi poeti che hanno fatto la storia della letteratura italiana e greca.

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    1. ..di cornice o meglio d’introduzione...NO è proprio una CORNICE. menefreghismo...paura che porta al disinteresse verso l'altro
      Boccaccio, differentemente dai due autori classici, non incolpa Dio o la natura per la pestilenza.NB ma Tucidide non incolpa mica le divinità!!!! anzi tutti questi autori si distaccano dalle oper dei sec. VIII-V a.C. perché cercano spiegazioni razionali e naturali senza dover ricorrere alla religione!!!
      ...il quale introduce la peste
      EVITA di usare dittologie unite dall'intercalare o meglio! usa subito l'espressione che ritieni più specifica e corretta!!! RIFORMULA LA CONCLUSIONE...non aggiunge nulla a ciò che hai detto è solo enfatica e retorica!
      Riguardo la causa, Manzoni non ritiene Dio e la natura colpevoli anzi li considera innocenti poiché da la colpa alla classe politica e in modo generico all’Uomo incapace di gestire una situazione simile. Manzoni non attribuisce colpe...a lui interessa osservare quali dinamiche si mettano in modo di fronte a tali emergenze, per analizzare l'animo umano!!

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  10. Andrea R. (parte 1)
    Il racconto della peste è un topos della tradizione letteraria occidentale più e meno recente. La prima descrizione della pestilenza di una certa obbiettività storiografica è quella di Tucidite, in “La guerra del Peloponneso”, datata V secolo a.c. In quest’opera lo storico fa riferimento all’epidemia di peste che sconvolse Atene e l’Attica nel 430 a.C. , all’inizio del conflitto che vide fronteggiarsi per circa trent’anni sparta ed Atene. Nella descrizione della pestilenza Tucidide si limita ad una lucida razionale ed analitica narrazione dei fatti, senza mai esprimere una propria opinione riguardo ciò che sta accadendo. Il tutto è il resoconto di un occhio attento, che osserva e annota sul proprio diario in maniera sistematica ciò che sta accadendo. In primo luogo egli fa riferimento alle origini della malattia che “comparve per la prima volta in Etiopia, al dilà dell’Egitto, calò nell’Egitto e in Libia e si diffuse su tutti i domini del re” e poi si dilunga in una minuziosa e scientifica descrizione dei sintomi. Più avanti egli riporta gli effetti che la pestilenza ha riportato sulla popolazione: il parziale scioglimento dei legami familiari, e l’inosservanza verso le leggi dello stato . Allo stesso avvenimento storico fa riferimento Lucrezio nel sesto libro del poema didascalico “De Rerum Natura”. Al contrario di Tucidide, che ci fornisce un accurato ritratto dal punto di vista storico, Lucrezio utilizza l’episodio della peste di Atene del 430 a.c. come espediente e mezzo tecnico per diffondere un concetto fondamentale del pensiero epicureo: la religione vista come accessorio dell’uomo. Nella sua narrazione egli si sofferma sul rapporto tra l’uomo e la religione quando la malattia dilaniava la città ed afferma che “non più si teneva in onore il culto divino e il potere dei numi: il dolore presente li vinceva”. Dunque se in un momento così tragico gli uomini accantonavano la religione ed addirittura interrompevano i riti funebri ciò stava a significare che la fede e la religione, in un ottica di sopravvivenza legata alla vita della malattia rientravano in un secondo piano, risultando per l’uomo dunque semplici accessori. Oltre al differente messaggio che i due autori ci suggeriscono anche se Lucrezio basa la propria narrazione proprio sulla storiografia di Tucidide, i due testi risultano differenti anche da un punto di vista stilistico: la descrizione del poeta romano è caratterizzata da uno stile e da un lessico epico e tragico e con una evidente enfatizzazione del tono egli descrive immagini crude e forti che colpiscono il lettore (vv 1151-1169). Con un’aggettivazione molto abbondante il poeta tende a toni macabri ed allucinanti, mentre Tucidide, nella sua narrazione, non si lascia mai coinvolgere dalla tragicità dell’evento mantenendo un tono razionale ed quanto più possibile obbiettivo. Molti anni dopo un altro autore si sofferma sulla descrizione della peste che ricopre un ruolo centralizzato nella sua opera riconosciuta come il capolavoro della letteratura occidentale: si tratta di Giovanni Boccaccio nel Decameron, una raccolta di cento novelle scritte ed assemblate dall’autore in un sistema libro. Boccaccio descrive la peste del 1348, che devastò l’Europa intera e che imperversò la sua Firenze tra marzo e luglio, poiché lo colpì in particolare il disfacimento di ogni norma e legge che regolasse la civile convivenza, e di conseguenza la crisi non solo economica ma anche di ordine epico-politica che investì la città durante la malattia. Nella prima giornata egli si appresta dunque alla descrizione della pestilenza che era “alquanti anni da le parti orientali incominciata”.

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    1. Ma ti sei tenuto il compito???
      TUCIDIDE!!!
      UNO DEI capolavorI della letteratura occidentale:

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  11. Andrea R. (parte 2)

    Continua in seguito con la descrizione dei sintomi e del decorso della malattia; in questo caso, come Tucidide, Boccaccio non si serve di un tono enfatico, ma si limita ad una descrizione scientifica della malattia, proseguendo con la descrizione delle modalità di contagio. La parte fondamentale però del suo discorso è quella successiva, quando egli descrive i comportamenti e le reazioni dei sopravvissuti. In moltissimi lasciarono la città che divenne quasi deserta, ma soprattutto il caos della malattia provocò una totale inosservanza delle leggi che da anni avevano regolato la vita della città, causando una situazione ai limiti dell’anarchia; egli dunque afferma “ e in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda auttorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per i ministri e esecutori di quelle, li quali, si come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi...”, sottolineando la crisi etico-politica della città. Boccaccio si sofferma in seguito su un altro punto già trattato sia da Lucrezio che da Tucidide: la dissoluzione dei legami familiari. Egli sviluppa e approfondisce questa tematica proprio per evidenziare la dissoluzione dei valori portanti della società come la famiglia. (infatti “l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito”).In Boccaccio dunque la peste cancella ogni ordine sociale e civile e abbatte l’autorità delle leggi. Anche Alessandro Manzoni due secoli e mezzo più tardi in “I Promessi Sposi” nei capiti 31e 32 del romanzo descrive l’esperienza della pestilenza. Si tratta dell’epidemia diffusasi a Milano nel 1629, descritta accuratamente dal’autore dal punto di vista storico. Manzoni a differenza degli altri tre letterari non si sofferma sui sintomi e sul contagio della malattia, ma fornisce un quadro ben definito dei personaggi preposti al controllo della pubblica sanità, che in un primo momento negano la diffusione del morbo ed intervengono solamente quando l’epidemia si era già diffusa largamente. In questo caso l’origine dell’epidemia fu “un fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate….” Le vittime aumentavano di giorno in giorno e nella città si era prodotta carità perversità e pazzia. Legata al rapido contagio in Manzoni si delinea la figura dell’untore, che cospargeva i luoghi con cui una persona entrava spesso in contatto per conteggiare gli abitanti della città. Questi elementi in Manzoni costituiscono un quadro storico descritto alla perfezione, uno sfondo dell’opera dei Promessi Sposi.

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    1. QUALE SCOPO HA MANZONI NEL PARLARE DELLA PESTE???
      Per il resto lavoro ben fatto!!

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    2. rispondi alla mia domanda così il lavoro sarà più completo e potrà essere fonte di valutazione!

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  12. Sara Giancola.

    L’ Atene del 1348 e la Milano del cinquecento – seicento si trovano a dover affrontare un’epidemia dalle cause ineguagliabili: la peste; che dall’Oriente arrivava attraverso le pulci dei topi dalle grandi imbarcazioni ai porti delle varie città.
    Grandi autori della letteratura si occuperanno di descriverne i suoi vari aspetti; infatti oltre al carattere fisico, e quindi ai sintomi da essa causati, non è da tralasciare l’aspetto del contagio e di conseguenza i comportamenti e le relazione tra i cittadini sopravvissuti.
    Per esempio nell’introduzione del Decameron Boccaccio descrive minuziosamente la peste in tutti i suoi aspetti; parlando delle ripercussioni corporee che essa causa dirà: “…nascevano… o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcuni crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo… e dalle due parti del corpo predette infra breve spazio di tempo cominciò… in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’ incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano….a cui grandi e rade e a cui minute e spesse.”
    Narrando della stessa peste, ma in un opera completamente diversa, Tucidide nella descrizione esalterà maggiormente lo stravolgimento subito dal corpo, che i sintomi di per se; questo è strettamente funzionale al passaggio successivo dove lo storico con particolare enfasi, ma non per questo con minore oggettività, racconterà delle conseguenze sociali che l’epidemia inevitabilmente porta. In particolare Tucidide racconta della grande moria che colpisce senza distinzione coloro che restano, pur rischiando la propria vita, accanto ai propri parenti o amici in punto di morte così come coloro che passano gli ultimi giorni di vita “ abbattuti e vinti sotto lo schianto della calamità.” ignorando così i bisogni dei propri cari, sopraffatti dalla paura della morte.
    Ed è questo un punto fondamentale per l’ epicureo Lucrezio, che nel “ De Rerum Naturae”, ribadisce il concetto epicureo sull’ assenza degli Dei; teoria qui supportata dal mancato aiuto “divino” alla società, mai bisognosa come allora, dell’intervento del sopranaturale per risolvere quella che per i romani era una punizione divina.
    Vi è poi Manzoni che a differenziarlo degli autori sopra nominati non è solo l’epoca e il luogo presi in considerazione per raccontare la peste (ambientazione Milano del ‘500 – ‘600) ma anche la dominazione della concezione cristiana nel romanzo “ I promessi sposi ” dove la città di Milano devastata dalla peste è “ l’immagine metaforica dell’inferno sulla terra ”. Manzoni analizza anche il tentativo iniziale della popolazione di negare il morbo, e poi la successiva ricerca di giustificare l’epidemia con il castigo degli dei.
    Dalla breve analisi di questi quattro autori emerge lo scompiglio procurato dalla peste: infatti a differenza di altre malattie, come detto sopra, questa ha una forte influenza anche sulla società alterando così le relazione e i rapporti interpersonali alla base di una civiltà.

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    1. In che anno è la peste di Atene??
      ...cause ineguagliabili (SPAVENTOSE): la peste che dall’Oriente arrivava...
      ...in UN'Opera....
      Tucidide nella descrizione esalterà maggiormente lo stravolgimento subito dal corpo, che i sintomi di per se...CHE VUOL DIRE ESALTARE MAGGIORM. LO STRAVOLGIMENTO CHE I SINTOMI???????
      Vi è poi Manzoni che a differenziarlo(?????) degli autori sopra nominati non è(???) solo l’epoca: RIFORMULA LA FRASE!!!!
      l'andamento del testo è un po'troppo confusionario...ATTENTA...un'analisi deve essere coerente...e magari servire a spiegare gli scopi dell'autore che ha scritto il testo!!!

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  13. Azzurra parte 1
    Fin dall’antichità la peste (termine usato più genericamente per indicare qualsiasi morbo di facile contagio, rapida diffusione e alta mortalità) è sempre stata una delle maggiori piaghe che potessero affliggere una società, forse addirittura peggiore della guerra: se ne trovano numerosi esempi nella storia, come l’epidemia che travolse Atene e tutta la regione Attica nel 430 a.C. o quella che sconvolse l’Italia nel ‘600, descritta ne “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni. Le cause di questo fenomeno sono spesso state attribuite all’ira divina e perciò lo stesso visto come un evento crudele e soprannaturale ma spiegabile solamente con la metafisica. Il primo che provò a ricercarne le cause in maniera più accurata e obiettiva fu lo storico greco Tucidide, ne “La guerra del Peloponneso”, dove raccontava appunto la peste di Atene: “A quanto si dice, (il morbo) comparve per la prima volta in Etiopia, al di là dell’Egitto, calò poi nell’Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del Re. Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per primo la gente del Pireo”.
    Più avanti lo storico descrive con precisione quasi medica i sintomi del male “… erano dapprima assaliti da forti vampe al capo … alcuni restavano privi degli occhi.” , in una cronaca abbastanza oggettiva, nonostante la crudezza del soggetto, per riportare infine le disastrose conseguenze sociali del contagio: l’angoscia e la disperazione che attanagliavano l’animo degli infermi, peggiorando il loro stato di salute, la compassione e il desiderio di scambiarsi cure ed aiuti contrapposti al terrore della malattia che portava all’isolamento in sé e alla morte in solitudine, dopo aver inevitabilmente contratto il contagio. Il morbo aveva insomma gettato la città nel caos più totale, tanto che “Si scatenarono dilagando … in soddisfazioni rapide e concrete”.
    Descrizione dell’aspetto e delle conseguenze sociali del morbo sono assolutamente comuni al latino Lucrezio, che, nel De Rerum Natura, prenderà a modello Tucidide appunto, per descrivere la stessa pestilenza. La differenza essenziale tra i due passi è la valenza dell’episodio: per lo storico greco si tratta di una semplice cronaca, mentre per Lucrezio l’epidemia ha la funzione di evidenziare il totale disinteresse degli dei nelle vicende degli uomini (La morte aveva colmato persino … il dolore presente vinceva), rafforzando così le tesi dell’epicureismo. Tuttavia a differenza di Tucidide Lucrezio fa emergere nella descrizione del morbo tutto il lato poetico del suo essere utilizzando “toni patetici, macabri, addirittura allucinati”.

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  14. Azzurra parte 2
    Ancora diversa è la funzione del “fenomeno pestilenza” nel Decameron di Giovanni Boccaccio: qui la peste (in questo caso trattasi di peste bubbonica vera e propria, quella del ‘300 a Firenze) è l’evento che fa da cornice all’opera, la causa del radunarsi della lieta brigata nel contado fiorentino, lontano del contagio, e al tempo stesso una macro-novella che descrive gli effetti sia fisici (con curiosità quasi scientifica, righe 15-37) sia morali del morbo: in quest’ultimo aspetto Boccaccio si accosta moltissimo alla resa tucididea delle conseguenze sociali della pestilenza quando evidenzia la totale non curanza delle leggi al fine perseguire il proprio piacere, mentre se ne discosta nella descrizione delle emigrazioni di massa dei cittadini che volevano evitare il contagio. Le cause del morbo sono però per lui sconosciute e quindi attribuite ad un castigo divino.
    Invece Alessandro Manzoni, ne i “Promessi Sposi”, conscio del fatto che il contagio (relativo alla pestilenza che colpì tutta l’Italia a partire dal nord nel 1629) fosse stato diffuso dall’arrivo dei soldati Lanzichenecchi, descrive questo avvenimento come un comune fatto di cronaca funzionale a comprendere le successive vicende dei suoi personaggi. Questo autore quindi non fa molti accenni all’aspetto fisico del contagio, ma amplia nello spazio di ben due capitoli (XXXI – XXXII) l’aspetto dello sconvolgimento morale causato dal morbo: all’inizio nessuno vuole ammettere l’evidenza, ossia che il male che va diffondendosi e mietendo migliaia di vittime altro non è che peste, perciò l’allarme viene dato quando ormai è troppo tardi e la città di Milano già versa nella follia e nel caos più totali. Le conseguenze che ne derivano sono a dir poco inumane: si ipotizzano le cause più improbabili e disparate per trovare una spiegazione alla peste, la più gettonata delle quali è quella magico-diabolica degli untori, uomini o donne che vagherebbero per la città diffondendo il mortale veleno; gli infermi vengono schifati e rinchiusi nei lazzaretti, abbandonati alle cure dei pochi compassionevoli (perlopiù frati cappuccini), mentre i monatti fanno irruzione nelle case della città a loro piacimento derubando, senza distinzioni, vivi o morti. Manzoni tuttavia è l’unico a sottolineare anche un aspetto positivo della vicenda, ossia una “sublimazione di virtù”, seppur contrapposta a “un aumento e d’ordine ben più generale di perversità”.

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  15. La peste è una malattia infettiva di origine batterica causata dal batterio Yersinia Pestis, trasmesso sia agli uomini sia agli animali principalmente dalle pulci dei topi dove, il bacillo trovava condizioni climatiche e biologiche favorevoli al suo sviluppo; la malattia giungeva in Occidente attraverso le navi mercantili che, insieme alle merci, portavano con se anche i topi infetti. La malattia della peste ha costantemente accompagnato la vita dell'uomo tanto da esserne diventata quasi un topos letterario oltre che storico; proprio per questo vari scrittori, da Tucidide a Lucrezio, da Boccaccio a Manzoni, hanno affrontato questo tema nelle loro opere. La prima descrizione di una pestilenza, contraddistinta da un'attenta ricerca delle cause e degli effetti, è quella che lo storico Tucidide fa della "peste di Atene" del 430-429 a.C. nella sua opera "La Guerra del Peloponneso"; l'autore, da attento osservatore, in primo luogo enumera i sintomi precisi e gli effetti che la malattia provocava sugli esseri umani (ad esempio "forti vampi al capo", "violenti attacchi di tosse" o "urti di vomito"); da questo argomento Tucidide si allarga fino a riflettere sulle conseguenza sociali e morali della malattia: la solitudine e lo scoraggiamento che colpiva le persone affette da questa malattia, sono appunto conseguenze affrontate nel testo dove, l'autore stesso dichiara che, oltre ai dolori fisici provati c'era anche "lo sgomento, da cui ci si lasciava cogliere quando si faceva strada la certezza di aver contratto il contagio". La stessa peste (quindi quella di Atene del 430-429 a.C.) viene descritta quasi 400 anni dopo da Lucrezio nella sua opera il "De Rerum Natura"; l'autore, riprendendo come modello l'opera tucididea e particolari medici dagli scritti di Ippocrate, si sforza di dare prima una descrizione abbastanza puntuale della fenomenologia del morbo, per poi spostarsi sulla catastrofe (di origine naturale e non più divina come credeva Tucidide) che distrugge ogni manifestazione della vita morale, civile e religiosa. Anche Giovanni Boccaccio, nella sua opera il "Decameron", circa 1300 anni dopo i due autori sopra citati, riprende il tema della peste, ponendo proprio come cornice della sua opera questa malattia che si sviluppò a Firenze nel 1348; come aveva già affermato Tucidide e poi Lucrezio, anche per Boccaccio la peste cancella ogni ordine sociale e civile, annulla i freni morali e abbatte l'autorità delle leggi umane e divine. Infatti sarà proprio per l'ambiente circostante, descritto scrupolosamente da Boccaccio, che i dieci ragazzi, protagonisti della storia, si allontaneranno per dieci giorni dalla città di Firenze per rifugiarsi in campagna. Infine un ultimo autore che utilizzerà questo topos nella sua opera "I Promessi Sposi" sarà proprio Alessandro Manzoni che appunto, introdurrà la peste a lui più recente (quella del 1629) nel XXXI e nel XXXII capitolo; l'autore nella sua opera, dopo una breve descrizione alla devastazione fisica portata dalla peste, si sofferma a riflettere su come questa malattia sia nata e si sia sviluppata nella città di Milano. Infine anche Manzoni, come gli autori sopra citati, sottolinea in questi capitoli l'arrivo al crollo delle strutture sociali e alla generazione di un forte disordine morale, dove la città è nel caos e le famiglie non riconoscono più legami affettivi.
    Alessandro Pasqui.

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    1. ci dei topi dove, (niente virgola) il bacillo
      introdurrà la peste a lui più recente ...a lui cronologicamente più vicina...

      secondo te perché così spesso la peste è usata come nucleo narrativo??????

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  16. Kristian (parte 1)

    Per essere non solo argomento di trattazione tematica, ma prevalentemente spunto di riflessione per una elevata moltitudine di autori, la peste nasconde dietro la sua realtà medico- scientifica la veste di uno dei "tòpoi" letterari più implicati nella storia della letteratura. Non a caso, autori del calibro di Tucidide oppure Lucrezio, non si sono limitati a prediligere la descrizione della peste nei loro componimenti per la sua complessa fenomenologia o per altre futili ragioni, ma più che altro perchè suscita nelle popolazioni colpite gravi situazioni sociali di degrado umano, che sono degne di nota.
    Il primo vero riferimento alla peste, con una obiettiva trattazione storica, è, nel V° secolo a.C., quello del generale e storico greco Tucidide il quale, nel secondo libro del suo componimento "La guerra del Peloponneso", presenta una lucida e pragmatica descrizione della peste, divisibile in: anamnesi, quindi ricerca delle cause della peste, diagnosi, fenomenologia e sviluppo del morbo e prognosi, dirette conseguenze dell'epidemia. "A quanto si dice, comparve per la prima volta in Etiopia, al di là dell'Egitto, calò poi nell'Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del Re..", scrive Tucidide, collocando la presunte fonte pestifera nella zona etiope e da lì lo sviluppo successivo nelle altre zone del mondo. Sappiamo infatti che il morbo della peste viene indotto all'uomo dalle pulci dei topi infetti presenti in maggioranza nelle navi mercantili; ed è questo uno dei più validi motivi per cui in Italia il contagio si sviluppo a partire da due imponenti sedi mercantili: Genova e Venezia. Secondo Tucidide i primi ad essere stati colpiti da questo morbo furono i Peloponnesi che, inquinando le cisterne di acqua piovana con veleno, infettarono le altre popolazioni greche. I fattori che fanno avvertire i sintomi della peste sono "forti vampe al capo. Contemporaneo l'arrossamento e l'infiammato enfiarsi degli occhi." Successivamente l'infermo andava incontro ad una escalation di forti dolori, a causa dei quali "in molti casi la morte sopraggiungeva al nono e al settimo giorno". Di fondamentale importanza, proprio perchè elemento di raccordi dei vari autori, è l'analisi delle conseguenze sociali: secondo Tucidide, era imminente "lo sgomento, da cui ci si lasciava cogliere quando si faceva strada la certezza di aver contratto il contagio." e "Chi per paura rifiutava ogni contatto, periva solo." La paura del contagio delinea quindi un primo sentimento di diffusa illegalità (dedicarsi ai piaceri, gli eccessi, i furti, etc.) ma anche, e soprattutto, un affievolirsi dei rapporti interpersonali.
    Agli aspetti linearmente concreti e minuziosi dello storico Tucidide si impongono i tratti più icastici e patetici (nell'accezione latina del termine: pàthos=drammaticità) di Lucrezio che nel primo secolo a.C. fa terminare il suo capolavoro filosofico, il "De rerum natura", con la pessimistica descrizione della peste del 430 a.C., la stessa descritta da Tucidide. Le caratteristiche enfatiche, che solo la poesia può dare, non vengono riscontrate in Tucidide, nonostante l'autore romano abbia come punti di riferimento il medico Ippocrate di Cos e lo stesso Tucidide. Nel sesto libro del "De rerum natura" sono maggiori le somiglianze tra il testo greco e quello romano, seppure Lucrezio analizzi le conseguenze di ambito anche religioso e con particolari meno schietti, lasciando posto alla sublime leggerezza poetica che si delinea nonostante il tema trattato.












































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    1. Per essere non solo argomento di trattazione tematica (??forse sistematica?), ma prevalentemente spunto di riflessione per molti autori delle epoche più diverse, la peste nasconde dietro la sua realtà medico- scientifica la veste di uno dei "tòpoi" letterari più implicati (??????) nella storia della letteratura.

      Sappiamo infatti che il morbo della peste viene indotto all'uomo dalle pulci dei topi infetti presenti in maggioranza nelle navi mercantili, motivo per cui in Italia il contagio si sviluppo a partire da due imponenti sedi mercantili: Genova e Venezia (ma ne parli in un luogo poco adatto...a proposito della peste di Atene!!! che peraltro non fu peste nera come poi avvenne a Firenze e Milano!!!

      Agli aspetti linearmente(tolgiere linearmente...appesantisce) concreti

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  17. Kristian (parte 2)

    "Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino e il potere dei numi: il dolore presente vinceva." La situazione è quindi tragica, infatti: "Non di rado avresti veduto gli esanimi corpi dei figli, e al contrario spirare la vita i figli sulle madri e sui padri." Su questo finale conclusivo del poema didascalico sono nati molti interrogativi, che furono colmati dall'avanzare continue ipotesi riguardo ad una "incongruenza lucreziana rispetto all'epicureismo" oppure un "personale squilibrio mentale" e così via dicendo.
    Un ampio scarto temporale ci porta ad analizzare uno dei padri della letterature italiana, nonchè progenitore della prosa occidentale: Boccaccio. Nell' introduzione al suo Decameron, Boccaccio parla del cosiddetto "orrido cominciamento", che è movente e cornice strutturale della raccolta di novelle, ovvero la peste fiorentina del 1348. Lo scenario è quindi cronologicamente e fisicamente diverso dalla peste tucididea o lucreziana ma, quasi per voler del caso, si riconoscono moltissimi tratti comuni. L'attenzione del Boccaccio nell'analisi di questo morbo, cade prevalentemente sugli effetti fisico-morali della malattia e sul rovesciamento di ogni norma e legame affettivo che deriva dalla paura del contagio. Boccaccio riconosce la presenza di "govaccioli" (bubboni), termine gergale per indicare le protuberanze morbose tipiche dell'infermo. Gli "appestati" contagiano uomini, con il mezzo della parola, del tatto o dei vestiti, ma anche animali, tant'è che il Boccaccio riporta la triste morte di due maiali dopo aver ingerito i panni di un malato. Per evitare il contagio c'era o chi si rinchiudeva in casa o chi andava ad annusare odori o erbe in cerca di guarigione. Le donne perdevano ogni pudicizia, frutto della follia, ed ogni solidarietà umana veniva meno. "A me medesimo incresce andarmi tanto tra tante miserie.." è cioò che dice l'autore delineando il carattere realistico del testo, dovuto alla sua diretta testimonianza e al brusco sovvertimento dei più elementari rapporti di convivenza civile.
    Lo sguardo realistico tipico di Boccaccio non ricade allo stesso modo su un altro celebre autore italiano: Manzoni. L'ideale della peste manzoniana del 1630 propone il morbo come una "metafora del mondo umano inquadrato nel disegno della Provvidenza Divina". Nelle pagine de "I Promessi Sposi" infatti domina la concezione cristiana dell'esistenza tesa ad una funzionale meditazione sul dolore e sulla sofferenza umana. In veste di storico, il Manzoni descrive così la peste nel XXXI° capitolo del suo componimento: "un tratto di storia patria più famoso che conosciuto".Tutti, nella affollatissima e caotica Milano, sono colpevoli del contagio: dopo l'avvento dei lanzichenecchi spopola il "celebre delirio" della credenza delle unzioni, definito come un inconscio bisgno collettivo di scaricare su persone singoloe le responsabilità del flagello. Manzoni sottolinea, nel capitolo XXXII°, lo sfacelo delle strutture civili ed i meccanismi psicologici della gente e si assiste ad un mero vanificarsi di ogni norma di convivenza civile e umana.

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    1. ci porta ad analizzare uno ...a soffermarci sull'opera di uno

      Lo sguardo realistico tipico di Boccaccio non ricade (???non si ritrova ??) allo stesso modo su un altro celebre autore italiano: Manzoni. Nell'idea di Manzoni la peste 1630 vale come una "metafora del mondo umano inquadrato nel disegno della Provvidenza Divina".

      In alcuni passi sei troppo e forse, inutilmente, complicato tanto che si perde il senso di ciò che vuoi dire....un po' come nella prima parte del lavoro su Buzzati.

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  18. Kristian (parte 3)

    "Non del vicino soltanto si prendeva ombra dell'amico, dell'ospite; ma què nomi, què vincoli dall'umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore.." scrive il Ripamonti, diretto riferimento di Alessandro Manzoni. E' proprio con tali citazioni che il Manzoni accosta alla realtà allusiva dell'ottica cristiana, il puro realismo dell'opera che è quindi funzione testimoniale e motivazione dell'autore. Differenza peculiare dello scritto manzoniano, rispetto ai precedenti autori, è anche il fatto di non dare una precisa descrizione dell'anamnesi o della fenomenologia del morbo, ma soffermarsi sull'espansione di città in città del morbo.
    La principale caratteristica riscontrabile nei quattro autori è, oltre all'accurata descrizione dell' epidemia, la descrizione dei risvolti sociali e interpersonali. Si può quindi notare come, anche al variare dei secoli, la peste sia motivo di delirio in ambito sociale ed è quindi definibile come "catastrofe che distrugge ogni manifestazione della vita morale, civile e religiosa."

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  19. A tutti....sabato compito in classe di latino...oggi ho dimenticato di segnarlo!!
    voti del compito di italiano mancanti: lucchesini 7 1/2, Bartoli 5, D'Angelo 6 1/2....chi altro mancava??
    Portate il volume nuovo di lett. italiana!
    tra stasera e domani finisco di leggere i post sulla peste
    buona domenica

    Prof. Ginevra

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  20. professoressa io il mio sto finendo di sistemarlo.. tempo qualche ora lo pubblico.
    Marta :)

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  21. “(…) Nessuna tradizione serba memoria in nessun luogo, di un così selvaggio male e di una messe tanto ampia di morti (…)”. Unicamente preceduto da imprecisi riferimenti a epidemie mitiche, lo storiografo Tucidide fu il primo a descrivere minuziosamente l’avvento di una pestilenza, focalizzandosi in particolare su quella abbattutasi sul popolo ateniese. Prima di lui gli unici riferimenti a questo morbo ci pervengono da Omero e da Sofocle che, nell’Edipo Re, descrive la contaminazione avvenuta a Tebe. Queste prime testimonianze sono comunque di indubbia rilevanza e da porre in contrasto con le documentazioni posteriori. Nelle narrazioni infatti è messo in risalto come le cause dell’orrenda malattia siano da attribuire ad un agente divino: entrambi i casi riflettono la pena degli dei punenti la tracotanza dell’uomo. Questa soluzione non è menzionata ne “La Guerra del Peloponneso” di Tucidide nella quale prevale una ricerca di cause materiali a cui si cerca di giungere attraverso una descrizione dettagliata del morbo (…esporrò gli aspetti in cui si manifestava (…) il cui studio riuscirà utile (…); forti vampe al capo, infiammato enfiarsi degli occhi etc.). Sono considerati inefficaci tutti i metodi di utilizzo della magia o della religione. Inoltre, in linea con il suo metodo di ricerca, lo storico si sofferma molto anche nel descrivere le conseguenze sociali del disagio, ovvero cosa ha comportato nei rapporti dei cittadini tra loro e con la legge (relazioni sociali impossibili, episodi di “travolgimento degli argini della legalità”). Si può affiancare a questo preciso delineare la situazione politico-sanitaria lo scritto di Lucrezio, che in quasi completa mimesi di Tucidide, ricostruisce la difficile condizione in cui versava l’Attica nei medesimi anni. Per una buona parte, circa metà descrizione, il filosofo aemula, fin nell’ordine degli effetti mostrati, lo storico ateniese. Avviene però uno stravolgimento della narrazione nel momento in cui il poeta cessa di celarsi dietro all’opaco velo dell’immagine di filosofo e con toni enfatici ed espressioni forti e poetiche fa un quadro del complesso e triste panorama sociale. Il “novus flos” della forma poetica è ampliato dalla critica alla religione: come mai prima nessuno aveva tentato di esprimere ai romani, Lucrezio critica la scarsa utilità e solidità dell’istituzione religiosa: “il dolore presente vinceva”.

    (è solo metà, non me lo faceva caricare perchè supera il massimo dei caratteri D: )

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  22. Nei secoli i riferimenti alle epidemie restano molti. In Boccaccio vi è, diversamente in stile e intenzioni, la descrizione della pestilenza come cornice della sua opera. Qui presenta infatti una situazione di partenza (la città di Firenze dove dilaga la peste) paragonata a un’aspra montagna e l’evoluzione di questa in pianura (trasferimento in campagna). Lo scrittore intende sottolineare che i ragazzi novellatori hanno il bisogno di sottrarsi alla situazione di bestialità in cui versa la città, per ritirarsi in una microsocietà funzionante: il tentativo terminerà con un ritorno alla realtà e l’accettazione della stessa. La cornice del Decameron è dunque metafora di un viaggio, utilizzata funzionalmente al racconto e riecheggiante del percorso dantesco. Similmente ai sommi Tucidide e Lucrezio, Boccaccio racconta degli effetti fisici della peste sulla popolazione ma differisce nell’esplicazione delle cause: non è a conoscenza del motivo di questo disastro e non intende spiegarlo al lettore ma solo raccontare il necessario affinché si comprendano le motivazioni dell’opera. Questo suo sottrarsi al compito di ricercatore è dovuto alla non totale veridicità di ciò che sta accadendo: si intrecciano realtà e fantasia, la malattia e l’originalità del racconto. Contrapposto alla maniera di Boccaccio, Manzoni dimostra la tragicità della presenza della peste, descrive reazioni e provvedimenti delle istituzioni (emanazioni di gride, voci del popolo, presentazione dei personaggi di spicco etc.). Distinguendosi da tutti gli altri lo scrittore non descrive quasi per niente gli effetti fisici visivi, probabilmente a causa del ruolo che ha l’epidemia all’interno della sua opera: il suo scopo è quello di rivelare la situazione sociale di Milano, curandosi più del governo della città stessa che dei cittadini. Si collega però facilmente agli altri attraverso il ruolo della “superstizione”: tranne che in Boccaccio, tutti prima di lui avevano menzionato quanto la magia o la preghiera agli altari degli dei non fosse utile a risolvere il disagio. Stilisticamente la prolissità di Manzoni trasforma i due capitoli dei Promessi Sposi in una cronaca esatta di ciò che accade a Milano e dintorni, e ci allontana enormemente dalla poesia suggestiva di Lucrezio e dalla gradevole narrazione favolesca di Boccaccio mentre risuona scientifico e perentorio ricordando i passi di Tucidide.

    non mi fa mettere le note, ma io le ho fatte, se vuole poi le mando il documento word.

    buona domenica! :)

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    1. Perché Manzoni, che pure è un romanziere, somiglia tanto a Tucidide e non a Boccaccio??? spiegami questa cosa...poi ti meriterai quanto promesso! ;) CIAO

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    2. E' semplicemente diverso lo scopo delle loro opere. Manzoni intende fare un resoconto esatto e dettagliato e raccontare la storia di Renzo e Lucia attuando una ricerca storica (Storia: concretamente, l'italiano "storia" discende dal latino historia, a sua volta dal greco ἱστορία (istoría), che significa "conoscenza acquisita tramite indagine, RICERCA" - wikipedia), stessa idea di Tucidide (anche se lui descrive esclusivamente la realtà dei fatti senza che ci sia una storia intrinseca). Boccaccio non ha intenzione di approfondire l'argomento "peste", a lui serve solo come base e motivazione del racconto (cornice). Anche perchè per il resto il Decameron contiene elementi fantasiosi e quasi "leggeri" da affrontare.

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    3. Beh....ma Manzoni è pur sempre un romanziere...in che senso compone una storia....qualche riferimento teorico del suo punto di vista che spiega la sua vicinanza a Tucidide!!!!??

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    4. scusi il ritardo professoressa ma non mi funzionava e quindi mi sono dimenticata.
      Avevo scritto che la differenza con Boccaccio è che il romanzo di Manzoni è un romanzo storico che sottintende una ricerca approfondita storicamente. Dal punto di vista teorico le basi sono: il vero per soggetto (ricostruzione storica degli avvenimenti di quell'epoca), l'utile per scopo (lo aiuta a diffondere i suoi valori), l'interessante per mezzo (romanzo di argomento popolare e moderno).
      La somiglianza con Tucidide risiede proprio in queste caratteristiche.

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  23. La peste ha costantemente accompagnato la vita dell’uomo da esserne diventata un topos letterario; è una delle disgrazie più temute e catastrofiche per l’umanità e spesso le epidemie hanno avuto dimensioni tali da stravolgere l’assetto sociale ed economico di intere aree geografiche.
    Questa sua continua presenza ha fatto sì che gli uomini imparassero a conviverci e difendersi ma per la sua gravità e rapida diffusione ha messo in evidente difficoltà chi ha tentato di opporsi per salvarsi: per questo motivo sono molti gli autori che si sono dedicati alla peste.
    Si tratta di un morbo infettivo ricorrente nella storia che ha provocato uno stato di ansia e di paura così diffuso da creare una rappresentazione mentale universale della malattia che da Tucidide si è prolungata fino a Manzoni, passando per Lucrezio e Boccaccio: è nata così una vera “letteratura della peste”.
    Gli autori cercarono di descrivere come sotto l’azione della peste le strutture della società si disgregano e si assiste al totale sconvolgimento della condizioni morali e psicologiche.
    La peste è simbolo di un disordine in cui i giorni si presentano come il dramma della solitudine dell’uomo: è una malattia totale dopo la quale non rimane che la morte.

    Tra i primi autori che affrontarono il tema della peste si evidenzia Tucidide, uno storico greco del V secolo a.C., che nella sua opera “La storia della guerra del Peloponneso” scrive dell’epidemia che colpì Atene nel secondo anno di guerra, nel 430 a.C..
    Lo scrittore greco è spinto nella descrizione dei sintomi della peste da un motivo strettamente storico perché egli vuole che la sua opera sia utile alle future popolazioni affinché possano riconoscere una tale epidemia con tempestività ed evitare la sua diffusione.
    Tucidide descrive il sovvertimento dei valori religiosi e morali che circolano tra le popolazioni contagiate e sottolinea come gli uomini non erano chiamati a morire a secondo della religione che professavano ma erano egualmente uccisi; la strage avveniva con grande confusione: persone mezze morte vagavano invano per le strade e corpi già uccisi dal morbo giacevano uno sopra l’altro. Gli uomini cercavano talvolta di soccorrere i contagiati, rimanendo a loro volta colpiti dal male oppure seppellivano i corpi come potevano sconvolgendo tutte le usanze funebri, ma ognuno cercava di godersi la vita prima che la morte si fosse abbattuta su di lui.
    In modo simile ci parla anche Lucrezio della peste di Atene del 430 a.C. quando l’autore latino descrive l’epidemia a conclusione del suo poema il “De rerum natura” e la differenza che distingue i due autori è data dal diverso stile che utilizzano.
    Lucrezio concentra la sua attenzione sul mondo degli uomini sul quale si abbate la peste; sottolinea gli effetti del morbo, la decomposizione del corpo ma soprattutto il trionfare della paura e del terrore di fronte alla peste.
    L’autore utilizza uno stilo elaborato, termini retorici e iperbolici che rendono le immagini più drammatiche e ricche di pathos perché per Lucrezio non è importante esaminare con attenzione le modalità di contagio della peste ma prova interesse soprattutto a creare un clima di morte e desolazione da trasmettere al lettore. Lucrezio è inoltre volto a dimostrare, grazie agli insegnamenti di Epicuro, che gli uomini non devono avere paura della morte e tanto meno degli sconvolgimenti naturali, come la peste, perché temere significa turbarsi e il turbamento era fonte di infelicità.
    parte 1
    ALESSIO VERGARI!

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  24. Completamente diverso è il rapporto tra Boccaccio e la peste che diventa un movente narrativo per l’elaborazione del Decameron a causa della peste che scoppiò in tutta Europa e a Firenze nel 1348: l’autore non riteneva che fosse causa di una punizione divina; non potendo però conoscere i meccanismi di contagio, concentrò la sua attenzione sugli effetti della malattia descrivendo dettagliatamente gli stati fisici e morali.
    Il disfacimento sociale e morale colpisce l’autore che risalta l’ignoranza della popolazione che per disperazione del contagio ricorre a indovini si giunge quindi alla dissoluzione dei costumi e dei legami affettivi prodotti dalla paura e dal timore.
    La peste diventa allora l’occasione di incontro dei dieci giovani che allontanandosi da Firenze non intendono solo evitare i rischi di contagio quanto ricostruire i valori morali della loro vita in una atmosfera di gentilità e cortesia, in contrasto con la volgarità e la corruzione circostanti.
    La peste narrata da Manzoni è invece più complessa e ricca di interpretazioni simboliche: l’autore intende descrivere i sintomi della peste che colpirono la Lombardia e la città di Milano nella prima metà del 1600 ma soprattutto fa della peste una metafora del mondo umano inquadrato nel disegno della divina provvidenza in cui l’uomo può salvarsi solo con il senso di responsabilità .
    La città di Milano invasa dal male diventa l’immagine metaforica dell’inferno sulla terra che crea in un rovesciamento dei valori morali e sociali dell’uomo: l’autore crede che proprio l’uomo è responsabile della diffusione della peste a causa della sua irrazionalità e superstizione.
    Manzoni paragona tale morbo al caos ma d’altronde risalta come nei momenti di disordine emergano le figure positive di colore che si sacrificano per la collettività ma ancor più si affermino quelle negative di tutta la popolazione: l’autore è terrorizzato dal senso di irresponsabilità umana che provoca la peste che vede la prevalenza del male sul bene in cui l’uomo può cercare di salvarsi attraverso l’esaltazione religiosa ma vede come allora a sacrificarsi siano solo gli uomini di chiesa – parroci di Milano, i cappuccini e il cardinale Borromeo.
    parte 2
    ALESSIO VERGARI

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  26. Valerio Anile
    La peste ha segnato con disastrose epidemie, particolari periodi storici, diventando uno dei topos letterari per eccellenza. Nell'immaginario collettivo ne vengono ricordate due in modo particolare: la prima fu quella che si diffuse in Europa durante la seconda metà del XIV secolo, ed ebbe una forza di diffusione così devastante che venne definita la “peste nera”; mentre la seconda si diffuse in Europa tra il 1629 ed il 1630 e viene descritta dal romantico Alessandro Manzoni nel suo capolavoro per eccellenza, “I promessi sposi”. Si però possono rintracciare testimonianze più antiche della diffusione della pestilenza nelle varie epoche storiche che si sono succedute fino ad oggi, partendo dal testo sacro, la Bibbia che ci offre una delle testimonianze piu antiche.
    Come riportato dal testo: Dice il Signore: Io ti propongo tre cose: scegline una e quella ti farò". Gad venne dunque a Davide, gli riferì questo e disse: "Vuoi tre anni di carestia nel tuo paese o tre mesi di fuga davanti al nemico che ti insegua oppure tre giorni di peste nel tuo paese? Ora rifletti e vedi che cosa io debba rispondere a chi mi ha mandato”. Così il Signore mandò la peste in Israele, da quella mattina fino al tempo fissato; da Dan a Bersabea morirono settantamila persone del popolo. E quando l'angelo ebbe stesa la mano su Gerusalemme per distruggerla, il Signore si pentì di quel male e disse all'angelo che distruggeva il popolo: "Basta; ritira ora la mano!". Nella Bibbia, la peste colpisce il popolo con un fine pedagogico cioè con il fine di insegnare: infatti viene interpretata come risultato di una colpa, vendetta o monito superiore, scaturita dall’ira di Dio. La letteratura greca e latina ci offrono valide testimonianze circa la diffusione di tale malattia, in modo particolare grazie a Tucidide e Lucrezio.
    Tucidide, nell'opera intitolata “La guerra del Peloponneso”, non vuole porre l'attenzione sulla descrizione della malattia e dei problemi che quest'ultima determina, ma vuole focalizzare l'obiettivo sulle cause che portarono alla diffusione della peste. Egli infatti narra con intento storiografico (abbandonando così la visione religiosa ed epica della pestilenza, secondo la quale la peste divenne l'emblema di una forza maligna che stava contaminando e disgregando la società), la pestilenza diffusasi in Grecia circa nel 430 a.C durante lo scontro tra Atene e Troia, e che colpì Pericle, uno degli uomini politici dell'Atene antica più importanti, ricordato per la guerra del Peloponneso ma soprattutto per l'innovativo (per quel tempo) sistema democratico di cui fu il fautore.
    Tucidide riporta che “il morbo colpiva con una violenza maggiore di quanto potesse sopportare la natura umana, e in questo particolare soprattutto esso mostrò di essere diverso da uno dei soliti: quegli uccelli e quadrupedi che si cibano dei cadaveri, sebbene molti ne fossero stati lasciati insepolti,o non vi si avvicinavano o, dopo averne gustato le carni, morivano. Eccone la prova: di tali uccelli si verificò una evidente sparizione, e non si vedevano né altrove né vicino a niente del genere; i cani rendevano più manifesto l’accaduto, poiché son soliti vivere con gli uomini.”

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  27. Valerio parte 2
    In primo luogo vi è una piccola introduzione su quelle che secondo lui furono le cause del morbo: nello specifico, la degradazione di ogni struttura igienica esistente, ed il sovraffollamento della città ateniese. Lo storico dedusse ciò, anche se non sapeva spiegare l’origine della peste in modo scientifico e cercò in qualche modo di descriverne i sintomi e gli effetti, onde evitare in futuro una nuova diffusione. Dalla testimonianza di Tucidide, che si presenta nella sua opera come un telecronista, emerge che ad essere colpite dal bacillo della peste, non furono solo gli uomini, ma anche le bestie ed emerge anche un generale sentimento di “pietas”: i pochi sopravvissuti cercarono di garantire una sepoltura ai propri cari. Ciò che colpisce il lettore non è tanto la mortalità che produce l’epidemia, bensì il modo con cui essa colpisce il popolo, lasciando all’’animo umano un senso d’ angoscia, che percuote le menti.
    Secondo invece il latino Lucrezio, che anche descrive la diffusione del morbo ad Atene, la peste deve essere associata alla forza della natura; Egli abbandona così le descrizioni della peste, concentrandosi sull’uomo e sottolineando la distruzione del corpo in ogni minimo dettaglio lasciando cosi l'opportunità al lettore di immaginare la crudeltà di quei momenti. Nel VI libro del “DE RERUM NATURA” il poeta epicureo cerca di comunicare un chiaro messaggio al lettore: proprio come non va temuta la morte, nemmeno i naturali sconvolgimenti devono turbare la fonte di felicità di ognuno di noi. I primi paragrafi della storia sono piuttosto fedeli a quelli del poema di Tucidide, anche se da un punto di vista stilistico, alla prosa quasi scientifica e razionalistica dello storico, si contrappone quella più poetica e dettagliata del latino Lucrezio, il quale però come Tucidide tende a descrivere in modo ben preciso le immagine drammatiche che colpiscono l’uomo.

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  28. Valerio 3 Ad esempio: “La gola e la lingua diventavano subito di color sangue ed emanavano un alito disgustoso e fetido”, mentre per Lucrezio “la gola, nera all’interno, grondava sangue, indebolita dal male, grave a muoversi, ruvida al tatto; l’alito, fuori dalla bocca, emanava un lezzo fetido, come puzzano i cadaveri putrefatti abbandonati”. Un altro chiaro esempio possiamo ritrovarlo la dove lo storico afferma che il male scendeva nel petto e da lì nello stomaco, al contrario Lucrezio dice che il male giungeva nel cuore. Questo per ribadire come detto già in precedenza che il poeta latino non esamina con occhio scientifico il morbo, gli interessa piuttosto rendere il clima di morte e desolazione. Sarà invece completamente diverso il rapporto tra Boccaccio e il morbo che colpi l’Italia, e in particolare Firenze nel 1348.La descrizione della pesta, introduzione al Decameron di Boccaccio, è un documento che descrive in modo metaforico la situazione politica e sociale del tempo all'interno della città di Firenze. La pestilenza ha sconvolto tutti gli equilibri preesistenti, comportando un ribaltamento dei valori, infatti si verificano fatti scandalosi per la mentalità del tempo. Con questo il poeta italiano manifesta il suo fine puramente artistico e sull’osservazione esatta e realistica. Gia dalle prime righe è chiaro l’intento di Boccaccio, che ha differenza degli autori descritti in precedenza nemmeno si pone il problema dell’origine della peste o le motivazioni per cui essa è giunta..
    La Peste narrata da Alessandro Manzoni è chiaramente la più complessa e ricca di interpretazioni simboliche. Egli vuole descrivere da una parte i sintomi della peste che colpirono Milano e il resto della Lombardia nel 1630, dall’altra cerca di fare chiarezza su tutte le superstizioni, tutto questo non abbandonando la storia intrinseca del suo romanzo. I capitoli XXXI e XXXII trattano della pesta dal punto di vista storiografico (riprendendo Tucidide), come dichiara l’autore egli cerca di ricostruire gli eventi descritti dai suoi predecessori, tutti privi di linguaggio e carattere scientifico. Ciò è del tutto coerente con la poetica dell’autore, il quale preferisce basare la propria opera sulla storia; cosi con la descrizione dei fatti si accompagna ad una critica riguardante gli errori umani dovuti alla superstizione, come viene descritto in precedenza da Tucidide. Manzoni ricerca una riflessione, sugli errori del popolo che non consente loro di comprendere la realtà delle cose; e quindi il caos e il disordine, descritto in passato da Boccaccio, prende il sopravvento con l’affermarsi della natura malvagia dell’uomo.

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  29. oggi non faccio in tempo a leggere i vostri ampi e dettagliati scritti....lo farò nel fine settimana....scusate ;)
    Ciao

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  31. Non ho letto tutto e non so se lo avete scritto, ma occhio che la peste di Tucidide non era peste bubbonica, ma agenti differenti. Fonte:

    http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1201971205001785
    http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1201971206000531

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